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Solo un uomo? Il Cavaliere-messia e la elusiva predica dell’Arcivescovo di Milano (con doppio salto mortale) 

DAL BLOG
Di Paolo Ghezzi - 17 giugno 2023

Ragazzo del 57, giornalista dal 79, troppo piccolo per il 68, ha scansato il 77 ma non la direzione dell’Adige (8 anni 8 mesi e 3 giorni) e la politica (24 mesi in consiglio provinciale tra il 2018 e il 2020)

La morte del Cavaliere mi ha lasciato (per un paio di giorni, finché ho elaborato il lutto) un vuoto, dentro. Sembrava immortale. Agiva come se fosse immortale. Era stato dichiarato tecnicamente immortale dal suo medico. E invece.

Già mi manca, appartenendo io alla vasta schiera dei suoi sconosciuti, insignificanti avversari: da quando, più di trent’anni fa, non rispose alla mia lettera privata contro il suo progetto arrogante di un Milan-ricchissimo-sempre-vincente, e mi dimisi da tifoso rossonero.

 

Quando poi discese in campo… Non ha mai detto, fatto una sola cosa – in politica e in tv – che mi abbia convinto. Che mi sia sembrata buona e giusta. Per tutte e tutti, mica solo per sé stesso e il suo clan, familiare e politico.

Per moltissimi di noi italiani, non era l’Italiano per eccellenza (come hanno scritto troppi giornalisti mitizzatori) ma era tutto ciò che noi NON volevamo essere.

 

Per questi motivi, una volta che gli hanno concesso l’onore del Duomo di Milano (che forse, per un pluripresidente del Consiglio, seppure pubblico peccatore, non si poteva evitare) ero molto curioso di sentire l’arcivescovo di Milano, come se la sarebbe cavata di fronte a una salma così eccellente e così imbalsamata, primo e ultimo Re della seconda Repubblica, sommerso da elogi quasi universali.

 

Ebbene, monsignor Mario Delpini (che Giuanìn e altri amici milanesi mi dicono essere un bravo prete) se l’è cavata con un doppio salto mortale carpiato. Per non elogiarlo né criticarlo, ha deciso di parlare dell’Uomo in generale, non dell’uomo particolare. Con parole accorate, belle, sincere ma vaghe. Non genuflesse, dunque, ma elusive. Leggiamone alcune.

 

“Vivere e amare la vita. … Vivere e non sottrarsi alle sfide, ai contrasti, agli insulti, alle critiche, e continuare a sorridere, a sfidare, a contrastare, a ridere degli insulti.

Amare e desiderare di essere amato. Amare e percorrere le vie della dedizione...

Amare e cercare il bello della vita. Essere contento di sé e stupirsi che gli altri non siano contenti. Essere contento delle cose buone, dei momenti belli, degli applausi della gente, degli elogi dei sostenitori. … Essere contento e sentirsi smarriti di fronte all’irrimediabile esaurirsi della gioia”.

 

A parte “le vie della dedizione” che sembrano più adatte a un missionario cattolico, a un mistico buddista o a un militante comunista, tutto il resto – come dice giustamente l’arcivescovo di Milano – è “ciò che si può dire dell’uomo”. Dell’uomo, di ogni uomo. E donna.

 

Ma restando nella compagnia degli uomini, quel “vivere, amare, essere contento”, faticare e tener duro, cercare la felicità e incontrare la disillusione, non vale anche per Alcide De Gasperi, Marco Pannella, Alberto Sordi, Diego Armando Maradona (per dire i primi quattro uomini famosi che mi sono venuti in mente)?

Bellissime, sante parole, dunque. Ma generiche. Universali.

 

Ora, ciò che non sopporto di molte prediche a molti funerali è proprio questo generalizzare, questo volare alto, questo ignorare la biografia del defunto. Mi è capitato anche poche settimane fa nella chiesa di San Bartolomeo a Larzana di Montagne, dove si dava l’addio a un bravissimo idraulico-tecnico-factotum del paese, Pierino. Il prete ha detto che era un brav’uomo che ci teneva alla famiglia ma non ha neppure accennato a quello che ha fatto per tanti anni, riscuotendo la gratitudine di tanti. Poteva essere stato un bancario o un astronauta, il Pierino. Nell’ultimo momento dell’addio a una vita, si ignora o si cancella quella vita.

 

Così anche Delpini con il Cavaliere.

Con un’aggravante. Nel finale della breve omelia, per scendere dal generale al singolare, l’arcivescovo di Milano ha fatto il ritrattino dell’uomo d’affari, dell’uomo politico, del personaggio di spettacolo “in generale”. E ha detto, testualmente: “Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. … Guarda ai numeri e non ai criteri. Deve fare affari”. “Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. … è sempre un uomo di parte”. “Quando è un personaggio, ha chi lo applaude e chi lo detesta”.

E qui Delpini ha liquidato venti secoli di magistero, di predicazione, di etica cristiana, una montagna sacra di milioni di parole che hanno cercato di inculcare nei credenti la “differenza cristiana”: fare economia ma per il bene comune, non per il profitto; fare politica ma al servizio del prossimo non di sé stessi; usare la popolarità per promuovere l’umanità di tutti, non per il proprio successo personale. De Gasperi, Moro, Zaccagnini non erano uguali a Berlusconi. O sì?

 

Ma questo triplice tratteggio generale dell’affarista, del politico, del personaggio – trinità berlusconiana – è servito appunto a Delpini per fare un salto-capriola alla conclusione: “Silvio Berlusconi è stato certo un uomo politico, è stato certo un uomo d’affari, è stato certo un personaggio alla ribalta della notorietà. Ma in questo momento di congedo e di preghiera, che cosa possiamo dire di Silvio Berlusconi? È stato un uomo: un desiderio di vita, di amore, di gioia. È un uomo e ora incontra Dio”.

Ecco fatto.

Se Berlusconi l’avesse potuto ascoltare, l’arcivescovo in Duomo, avrebbe il diritto di reclamare: ma la mia vita spericolata, da speculatore edilizio a inventore della televisione commerciale a inventore del partito-marketing? Da inseguitore di fanciulle a inseguito dai giudici? Da milanese fai-da-te a uno dei personaggi politici più rilevanti al mondo, come ha detto commosso il suo amico più fedele, il dittatore stragista Putin?

 

Davvero, a un funerale, si può dire solo che un uomo è un uomo? Non si deve abbozzare un profilo della sua vita, certo non per giudicarlo ma per affidarlo, come tutte e tutti, alla misericordia di Dio, se poi Dio c’è?

Davvero, dalla cattedra ambrosiana che fu di un fine biblista come Carlo Maria Martini, non ci poteva stare un riconoscimento al personaggio che ha fatto la storia con una energia assolutamente miracolosa, ma anche una garbata allusione a quanto sia stato cattivo maestro per i giovani, alla cui elevazione morale la Chiesa tiene così tanto? Come la mettiamo con l’uso spericolato del potere, beneficiando in primo luogo famiglia e amici? E lo spregio della giustizia con la sua innata propensione – lo diceva il suo ex amico Montanelli – a dire le bugie? La riduzione della donna a corpo femminile-oggetto del desiderio ad uso e consumo del maschio maschilista? Tutto ciò non meritava una qualche accorata, prudente riflessione? “Beati i poveri, guai a voi ricchi. Beati gli oppressi, guai a voi signori della terra. Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili…” Sta scritto nei Vangeli, è insegnamento bimillenario della Chiesa, che spesso ha predicato bene e razzolato malissimo. Ma sta scritto: e andava detto, di fronte a un Potentissimo che ci lascia, che lascia la scena del mondo.

Altrimenti i ragazzi e le ragazze di oggi, che la Chiesa europea (dove le chiese diventano musei e discoteche) ha già perso al 99%, saranno autorizzati a ritenere che l’affarismo, l’edonismo, il machismo alla Berlusconi siano modalità un po’ bizzarre ma simpatiche e accettabili per vivere la vita e presentarsi, da uomini come tutti, davanti a Dio.

Che spendersi – anima, corpo e assegni – per le olgettine delle cene eleganti ad Arcore alla fine sia come soccorrere i migranti anneganti nel Mare Mediterraneo, modi diversi di cercare l’amore.

 

Ecco perché monsignor Delpini non mi ha convinto. Non ha reso giustizia al Cavaliere Unico e Mitico. No, Berlusconi non meritava di essere salutato come un affarista-politico-showman qualsiasi. Davanti ai suoi fan e all’unico ospite internazionale, l’eccellente Orban, il Cavaliere meritava un ritratto a tutto tondo. Luci e ombre. Se non altro perché si stava salutando l’unico leader politico democratico del Novecento che ha avuto l’ardore e l’ardire di presentarsi, sulla scena del mondo, come l’Unto del Signore.

 

Altro che UN uomo, monsignor Delpini. Un messia!

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